Gioco d’azzardo patologico: per inquadrare il fenomeno

Negli ultimi anni sempre più persone si rivolgono a servizi e professionisti a causa di problemi legati al gioco d’azzardo patologico (GAP). Diversi anche i personaggi noti, uno tra gli altri Marco Baldini, che hanno rilasciato interviste in cui rendevano pubblico il loro disagio e le grandi difficoltà in cui si imbatte che perde il controllo e si perde nel gioco.

I tipi di gioco cui ci si riferisce sono molteplici: lotto, lotterie, bingo, poker, scommesse sportive, slot machine, e molti altri ancora. E’ a partire dagli anni ’90 che si osserva un netto cambiamento rispetto alla maggiore offerta quantitativa e qualitativa dei giochi: si è assistito alla nascita di diverse nuove modalità di gioco e al contempo la reperibilità degli stessi giochi è aumentata notevolmente.

In realtà, tuttavia, il gioco d’azzardo ha origini antiche e sembra che una prima variante fosse il gioco dei dadi. E’ bene però fare una distinzione tra gioco d’azzardo e GAP. Laudoucer divide i giocatori in “sociali” e “patologici”: nel primo caso ci si riferisce a chi gioca per divertirsi, accetta la sconfitta senza tornare per recuperare la perdita e, infine, gioca secondo le sue possibilità; il giocatore patologico, invece, è colui che gioca più denaro, più a lungo e più spesso di quanto ha previsto e di quanto si possa permettere. Quest’ultimo, a differenza della prima tipologia di giocatore, non è più libero di astenersi, cioè non riesce più a non giocare.

Si è osservato negli ultimi anni, tenuto conto dei cambiamenti che il panorama ludico ha subìto con l’introduzione di sempre più moderne forme di gioco, il giocatore patologico è più isolato, gioca per consumare senza che vi sia alcun rituale come in passato e ha la possibilità di giocare 24 ore su 24, data la grande diffusione di giochi on line e di luoghi adibiti ad una fruibilità ludica.

Ciò che in particolare preoccupa di questo fenomeno è l’alta probabilità che queste nuove forme di dipendenza affianchino le “vecchie” dipendenze (quelle da sostanza), le rimpiazzino o divenga10863540_10204976296234521_1774389201_nno per così dire intercambiabili, per cui il soggetto passa continuamente da una dipendenza all’altra.

Cosa si può dire rispetto alle motivazioni che spingono a giocare in modo “non sano”?

Secondo Freud, semplificando al massimo le sue teorizzazioni, il gioco è ricerca di piacere e fuga dal dolore. Tentando di fare una panoramica possiamo dire che le motivazioni sono variegate e risultano più o meno pregnanti in base al tipo di gioco preso in esame. Ad esempio, chi gioca alle lotterie è spinto in particolare dal sogno di una vita migliore; il poker e le scommesse sportive costituiscono invece più una sfida intellettuale; la dimensione sociale è più evidente nei vari casinò, bingo e ippodromi; il gioco delle slot machine pare essere legato alla possibilità di modulare l’umore.

La ragione sottostante e comune a tutte le tipologie di gioco, tuttavia, è semplicemente una: la possibilità di vincere denaro e soprattutto di vincerne molto di più di quanto si è speso. Il denaro sembra essere dunque il motore del GAP, il suo linguaggio universale. A tal proposito mi sembra interessante riportare il testo di una canzone di Daniele Silvestri, “Monetine” (2008):

 

Io vendo promesse di ogni sorta, qualcuna la mantengo,

di tutte le altre invece non mi importa.

Io smisto monetine da gettare in fondo a un pozzo o da grattare sulla patina dorata di un concorso a premi multimiliardari,

diffidate dei falsari e non incolpate me se ci gettate dei danari.

Non ho colpa se siete schiavi di una tombola,

stracolma di tesori che distribuisce a vanvera,

e vi coccola l’idea di impadronirvi della vincita, vivere di rendita.

Capita ogni domenica

e se non hai mai vinto fino ad ora

sei stato sfortunato, amico, tenta ancora.

Io vendo scommesse sul futuro, qualcuna vince molto,

di tutte le altre invece non mi curo.

E non ci sono meriti, non c’è una gerarchia,

ma solo il cieco meccanismo di una…lotteria!

E non posso che adeguarmi, non posso lamentarmi se usate queste mie monete al posto delle armi,

se tutti i vostri sogni li puntate in questo gioco:

io vendo un’illusione in più, e non è poco.

[…]

20 21 28

Totip, Enalotto

Se non faccio il botto mi butto sul Bingo,

rimango convinto che se anche non vinco è soltanto questione di tempo.

Poi terno, quaterna, cinquina

se vinco mi compro una casa in collina, una macchina buona e tre casse di rum.

Se vinco da bere per tutti tequila bum-bum!

Io sono imparziale e non mi impiccio,

se vinci prendi tutto,

se perdi in fondo è solo qualche spiccio.

Il rischio è minimo, la posta in gioco alta,

prendi una moneta, amico, e gratta.

Credici, provaci, potresti fare tredici,

se cedi il turno adesso sei pazzo, riflettici!

Il tuo destino sta girando… Ora!

…sei stato sfortunato, amico, tenta ancora!

[…]

 

L’esca che attrae inizialmente l’ignaro giocatore è la vincita, talvolta una serie di vincite fortuite, che fanno credere alla persona coinvolta di poter proseguire in una spirale di fortuna. Successivamente, tuttavia, arrivano le perdite, per ripagare le quali si ricorre a prestiti e indebitamenti. Di lì alla disperazione il passo è breve.

E’ importante quindi non sottovalutare il fenomeno e rendersi conto che tutti possono essere risucchiati dal vortice del GAP. Non si tratta di bandire il gioco ma di riconoscere l’eventualità che possa sfuggire di mano. Allora fate il vostro gioco, ma con molta attenzione!

Le parole che ho detto: sogno, possibilità, disperazione.

Il saggio dice:

Il gioco d’azzardo è il miglior modo per ottenere nulla da qualcosa. (Wilson Mizner)

Lorenza Di Gaetano

Diventare Genitori, qualche Consiglio…

Spesso si dice che “essere genitori è il lavoro più difficile del mondo” e in parte è vero, nessuno ci insegna come si fa, ma le 1persone arrivano ad assumere questo ruolo con il proprio bagaglio di esperienze personali e aspettative su di sè, sul proprio partner e sul nuovo arrivato. Nonostante ogni persona sia diversa dall’altra, così come ogni situazione, cercherò con questo articolo di delineare, seppur in modo sintetico, quelli che sono i punti fondamentali da tenere presente quando si diventa genitori. Prima di tutto oggi avere un figlio assume un significato molto diverso da quello che aveva in passato; dagli anni ’70, infatti, si è diffusa la cultura della “procreazione come scelta”, nella quale la coppia non “subisce” l’avvenimento naturale della nascita di un bambino, bensì la rende un evento scelto, controllato, ragionato e, di conseguenza, desiderato. Questo cambiamento di prospettiva ha portato delle modifiche strutturali in quanto il numero di figli è notevolmente ridotto e su di loro i genitori riversano tutta una serie di aspettative profonde. Non considerando le situazioni patologiche, è palese come ogni genitore cerchi sempre di fare il meglio per il proprio figlio, ed è per questo che è importante tenere presenti alcuni aspetti. Nonostante nel pensiero comune avere un bambino sia un qualcosa costellato solo di aspetti positivi, bisogna essere consapevoli che inevitabilmente questo importante evento è un momento critico per la coppia, in quanto implica una sua ridefinizione. Se da una parte, con l’emergere del ruolo genitoriale possono affiorare dei conflitti dovuti alle ansie legate al significato di diventare genitore, è altrettanto vero che la nascita di un figlio può divenire una risorsa per la coppia in quanto permette di rafforzare l’unione della diade nella costruzione di un progetto comune. Primo aspetto essenziale per una crescita funzionale del bambino e per il mantenimento di una sana relazione di coppia è il dividersi equamente l’impegno del3la cura del piccolo. Se in passato veniva considerata privilegiata la relazione madre-bambino, oggi si è sempre più convinti di come anche la figura paterna rivesta un ruolo saliente. Secondo, è necessario integrare il ruolo genitoriale a quello coniugale, ma mantenedoli entrambi e definendo dei confini tra di loro. Questo spesso può risultare difficile e alcune coppie si vedono costrette a ridurre drasticamente la propria intimità per concentrarsi unicamente sul figlio. È invece basilare, proprio per quest’ultimo, che la dimensione coniugale venga tutelata, in quanto solo genitori che hanno un buon rapporto di coppia garantiscono ai figli un clima positivo e dei modelli validi da seguire. Al contrario, quando non vi è distinzione tra ruolo coniugale e genitoriale spesso si verificano fenomeni di triangolazione dove il figlio viene coinvolto in conflitti della coppia.

Terzo, la nascita di un bambino coinvolge ovviamente anche le famiglie d’origine dei due partner e oggi ancor più di quanto avvenisse in passato, i nonni sono delle figure essenziali nella vita dei loro nipotini. Questo è un aspetto molto positivo, ma è importante tenere presente quale sia il ruolo di ognuno. Infatti, il compito dei nonni è quello di sostenere ed aiutare i neogenitori senza però sostituirsi nel loro ruolo genitoriale. Quindi devono aver fiducia nei propri figli, considerarli adulti e capaci a loro volta di “fare i genitori”; dal canto loro i neogenitori devono stare attenti a non essere loro stessi a cedergli il proprio ruolo, adagiandosi sul fatto che nella nostra frenetica quotidianità può essere molto comodo affidare completamente i nostri piccoli a qualcuno di assolutamente fidato. Ritornando alla coppia, un ulteriore aspetto fondamentale riguarda la contrattazione di uno stile genitoriale comune, in quanto è comprensibile come possa risultare confusivo se i due genitori danno al figlio indicazioni e richieste diverse tra loro. La letteratura delinea 4 stili educativi, ad ognuno dei quali vengono associate le caratteristiche dei bambini; la prima è la funzione genitoriale autoritaria nella quale vengono imposte regole, punizioni e raramente viene sollecitata l’opinione del bambino; in questo clima i figli crescono insicuri e socialmente incompetenti. La seconda è la funzione genitoriale permissiva nella quale il piccolo è totalmente libero di fare ciò che vuole; anche in questo caso, la totale mancanza di una guida porta i figli a diventare insicuri e poco assertivi. La terza è la funzione genitoriale trascurante e di rifiuto, nella quale gli adulti nè controllano le attività del figlio, nè tantomeno gli forniscono strumenti o regole; questo porta i bambini ad essere meno maturi riguardo sia la sfera cognitiva che quella sociale. Infine, vi è la funzione genitoriale autorevole, nella quale, pur mantenedo un fermo e continuo controllo sul bambino, si 2incoraggiano gli scambi verbali. Si comunicano i criteri di condotta in modo chiaro senza l’uso di restrizioni eccessive e vi sono manifestazioni di affetto maggiori rispetto agli altri gruppi. Con questo stile genitoriale i piccoli crescono più sicuri e autonomi, con un buon livello di autostima e di competenza sociale. È palese quindi che quest’ultimo risulta il metodo educativo migliore! È importante, però, sottolineare che nonostante la letteratura abbia dimostrato come la relazione genitore – figlio influenzi lo sviluppo di quest’ultimo, allo stesso tempo, dare una visione uniderezionale è inadeguato. Infatti anche la personalità del piccolo gioca un ruolo importante sul suo sviluppo e sulla relazione con gli adulti significativi.

Inoltre, non bisogna avere una visione deterministica in quanto ogni individuo, nel corso della sua vita, può fare delle esperienze che possono disconfermare idee e comportamenti interiorizzati. Rimane comunque il fatto che i bambini hanno bisogno di punti di riferimento e che per uno sviluppo funzionale i genitori siano delle guide, perchè è in primis dalla famiglia e dal rapporto con le proprie figure di attaccamento che si impara a stare nel mondo.

Le Parole che ho detto: ascolto, guida, rispetto, confini

Il saggio dice: “Solo crescendo i propri figli si può capire quanto è stato grande l’amore dei propri genitori” (Antico proverbio cinese)

Francesca Paoletti

Prendo e Mollo Tutto…Più o Meno

L’indipendenza, a mio avviso, è una chimera che sin dalla tenera età si cerca di raggiungere. Infatti da qufoto Claudiaando apprendiamo come muoverci cerchiamo sempre più di allontanarci in autonomia per esplorare il mondo materiale e sociale che ci circonda. Tuttavia in questa fascia d’età ci mancano ancora i mezzi psicologici (cognitivi ed emotivi) per poter sostenere questo distacco. Arrivati alla prepubertà la spinta si fa nuovamente molto forte; a questo punto i mezzi cognitivi e psicologici sono maturati di un bel po’, ma non ancora a pieno; ciò nonostante si ha la convinzione di poter fare tutto se solo quei “tiranni” (così possono essere vissuti) di adulti ne lasciassero la possibilità. Con l’adolescenza, però, tutta la carica accumulata negli anni immediatamente precedenti frequentemente scoppia comportando strascichi di conflitti e negoziazioni tra il ragazzo e l’adulto rispetto ai limiti e ai confini che ognuno deve rispettare (argomento rispetto al quale rinvio all’articolo scritto dalla collega Francesca Paoletti all’interno di questo stesso blog).

L’adolescenza passa; tendenzialmente tra ragazzo e mondo adulto si trova un equilibrio, e si giunge alla fase del giovane adulto. Qui l’indipendenza fisica è per lo più raggiunta, ma quella sociale e quella psicologica sempre più frequentemente sono distanti. Infatti, l’indipendenza sociale in quanto tale, necessita del riconoscimento da parte della comunità all’interno della quale si è inseriti. Perché ciò possa avvenire, però, sono fondamentali l’assunzione di una posizione lavorativa (e quindi l’indipendenza economica) e il dislocamento abitativo, ossia abbandonare la casa familiare. Fenomeni che nel nostro Stato tendono a distanziarsi sempre più nel tempo.

La completa indipendenza psicologica, invece, a mio avviso è irraggiungibile e per questo la ritengo una chimera. L’essere umano nasce come tutti i mammiferi dipendente da figure adulte che provvedano alla sua sopravvivenza. Tale status si mantiene per un lungo periodo. Ma al di là degli aspetti etologici (che comunque, in quanto animali, ci riguardano), vi sono aspetti emotivi che ritengo ancor più salienti. Infatti ogni persona è immersa sin dalla nascita in una rete di relazioni più o meno ampia. Ognuna di queste relazioni assume dei connotati emotivi che, a prescindere dalla loro qualità, negativa o positiva, ci rimangono nonostante lo scorrere del tempo. Tali relazioni contribuiscono in maniera più o meno marcata alla definizione di noi stessi. E sebbene in fasi successive si possa dire di aver tagliato tutti i ponti e tutti i rapporti con una determinata persona, che non interessi più nulla di essa, un qualcosa di quella relazione rimarrà sempre con noi, e soprattutto in noi. Quindi anche quando saremo adulti ci sarà rimasto qualcosa del rapporto di dipendenza dai nostri genitori, senza calcolare che tendenzialmente (come già accennato nell’articolo “Quando la Coppia Scoppia”) in età adulta la figura genitoriale viene sostituita da quella del partner come figura di riferimento principale (figura d’attaccamento primaria). Per questi motivi, e per altri che magari saranno oggetto di futuri articoli, penso che la piena indipendenza, così come viene generalmente intesa nella vita quotidiana, sia una chimera, ma al contempo necessaria poiché nella speranza di raggiungerla ciascuno di noi struttura una propria identità che ci permette di essere quelle “persone uniche e irripetibili” che siamo.

Ho basato queste affermazioni su una situazione di normalità, che pertanto non richiede attenzioni cliniche. Tuttavia, esistono una serie di condizioni in cui può essere decisamente produttivo rivolgersi ai Servizi o ad un professionista del settore, come ad esempio i casi in cui vi è un’estrema dipendenza da altre persone; oppure ci si sente incapaci di instaurare relazioni profonde; o ancora si ha una paura della dipendenza paralizzante; e altre ancora. Per questo motivo chi dovesse avere qualche dubbio non deve esitare a contattare un professionista che lavori nel pubblico o nel privato per chiedere chiarimenti o valutare l’inizio di un percorso di sostegno/aiuto.

Infine, tale articolo non vuole assolutamente essere un invito ad abbandonare la battaglia per “individuarsi” adagiandosi su un “tanto non ci si può fare nulla”, ma un’esortazione a prendere consapevolezza che l’indipendenza da persone, idee, passioni, etc. è un processo mai completamente acquisito e pertanto sempre oggetto di rivisitazioni lungo l’intero arco della vita.

Le parole che ho detto: dipendenza, relazione, libertà

Il saggio dice:

“Se mi arrenderò al piacere, dovrò arrendermi anche al dolore, alla fatica, alla povertà; anche l’ambizione e l’ira vorranno le mie energie, anzi sarò straziato fra tante passioni. Aspiro alla libertà; questo è il premio a cui sono rivolte tutte le mie fatiche. Mi chiedi che cosa sia la libertà? È indipendenza da ogni cosa, da qualunque circostanza esterna, da qualunque necessità” Lucio Anneo Seneca (Lettere a Lucilio)

Claudio Falciano

Vivere un conflitto: un male o un bene?

mediazioneUna nostra lettrice ci racconta di essere in un momento molto difficile con il suo compagno e confessa che se non fosse per la presenza dei suoi due bambini l’avrebbe già lasciato. Le hanno consigliato la mediazione familiare ma si chiede a cosa serve e se può essere davvero utile.

Ringrazio M.G. per darmi l’occasione di risponderle con qualche riflessione personale ma anche con qualche informazione che spero possa essere utile a comprendere che la mediazione non è la soluzione certa ma è pur sempre un’opportunità e come tale vale la pena provarla.

Le tante vicende personali che ho seguito, infatti,  mi hanno resa consapevole che la vita di un individuo può essere costellata di eventi inaspettati che colgono impreparati, deludono le aspettative, mandano in confusione e mettono in crisi anche i legami affettivi più lunghi. Quando questo accade il mondo intero sembra crollare, la paura prende il sopravvento e non si ha più l’idea né di chi si è, né di cosa si vuole. L’unica cosa certa è la sofferenza che si prova. Più si soffre e più la rabbia pervade. Più si è arrabbiati e più si fanno cose che mai si avrebbe pensato di fare. Si entra in una spirale di pensieri ossessivi che obbligano ad agire per difendersi da ciò che l’altro pensa e dai suoi agiti e si dimentica che anche la crisi più personale provoca ripercussioni collettive, i cui effetti riguardano tutti, persino le generazioni successive. Basta pensare a come cambiano i rapporti sociali quando si sfalda un nucleo famigliare: come un sasso, che gettato nell’acqua mostra pian piano cerchi concentrici sempre più ampi, così il disgregarsi di una famiglia investe prima i figli, poi i parenti e infine la comunità nel suo insieme.

 Sono convinta che non si possa superare il dolore se non lo si riconosce ma sono anche convinta che un luogo di ascolto e di parola con un terzo neutrale dotato di adeguati strumenti possa favorire una nuova esperienza di apprendimento. Un’occasione che trasforma e che restituendo la fiducia di possedere le risorse che servono per affrontare la vita crea lo spazio per tornare a parlarsi e ascoltarsi con rispetto. A questo punto non è più necessario farsi del male perché il dolore comincia a diminuire, la rabbia va via via scemando, tutto diventa più tollerabile e la tristezza non invade più le proprie intere giornate.

 Ecco perché considero la mediazione uno strumento per non farsi tanto male, che va praticata fin da bambini affinché si possa imparare prima possibile che i conflitti fanno parte della vita, che non sono qualcosa di bene o di male ma solo sintomi di un momento di trasformazione che ha bisogno della nostra parte migliore per raggiungere il miglior risultato possibile.

Le parole che ho detto: sofferenza, conflitto, mediazione, trasformazione.

Il saggio dice:

Chi vuole qualcosa sul serio trova una strada, gli altri una scusa.                                                                               (Proverbio africano)

                                                                                                                   Giusy Pignataro

 

Diventare adulto in tempo di crisi

L’idea di questo articolo non nasce da una domanda specifica pervenutaci, ma dal voler fare una piccola riflessione su una condizione che coinvolge molti individui e di cui se ne parla quotidianamente, tanto in televisione quanto per strada.
“Tutti i bambini diventano adulti… eccetto uno” così iniziava il film di Peter Pan, ma ad oggi può non essere del tutto vero.
Diventare grandi , così come ogni fascia d’età, comporta il raggiungimento di quelli che Erikson ha definito “compiti di sviluppo”, cioè il dover raggiungere delle tappe per potersi riconoscere e far parte della categoria in modo funzionale. Essere adulti implica lo sposarsi o, perlomeno, avere una relazione stabile; avere un progetto di vita; staccarsi, almeno in parte, dalla famiglia d’origine; avere dei figli; avere un lavoro. In una parola essere indipendenti.
Ognuno di questi “traguardi” comporta un grande investimento sia a livello psicologico che fisico. Ad esempio il matrimonio implica l’impegno personale e durevole verso un’altra persona, investire sia a livello finanziario che sentimentale su e con l’altro per costruire insieme una propria famiglia; lo stesso vale per tutte le coppie che decidono di convivere scegliendo, in questo modo, gli stessi doveri senza assumersi, però, esplicitamente la responsabilità del “per tutta la vita”. O ancora la nascita di un figlio che rappresenta un evento critico nella coppia in quanto implica necessariamente una ridefinizione dell’identità della stessa. Infatti, solo integrando il ruolo di partner a quello di genitore è possibile accogliere e prendersi cura del nuovo arrivato in maniera responsabile.Tutto questo può far paura e portare alcune persone a rimanere ferme nella propria situazione o addirittura nel nido familiare, ma oggi, purtroppo, la condizione di “eterno figlio” non è necessariamente una scelta voluta.
La letteratura ci insegna che l’adolescenza è quel periodo che fa da ponte dall’infanzia all’età adulta, in cui, secondo Erikson, l’individuo ha il compito di sviluppo di definire la propria identità. Tuttavia, la stessa letteratura sostiene che, nella società contemporanea, tra l’adolescenza e lo status di adulto si sono aggiunte la “giovinezza” e lo stato di “giovane adulto”. Nella prima l’individuo, intorno ai 20 anni, acquisita la consapevolezza di sé, è pronto ad amare, interagire ad un livello più profondo con gli altri e diventa psicologicamente capace di fare scelte durature. Quindi il giovane si ritrova, a differenza dell’adolescente, ad essere capace di prendere decisioni significative, impegnarsi in attività specifiche e continuative, intraprendere un rapporto sentimentale considerato “definitivo”, ma sempre più spesso non ha la possibilità di concretizzare tutto questo. Infatti, nella nostra società del benessere in genere il giovane si ritrova ad essere psicologicamente adulto, ma socialmente adolescente, in quanto non ha la piena indipendenza economica e spesso si ritrova a dover rimanere a vivere con i genitori.
Dagli anni ’80, alcuni studiosi hanno inserito anche l’appellativo “giovane adulto” per identificare quelle persone per cui neanche la “giovinezza” basta ad accompagnarli verso lo status di adulto. È il caso di quegli individui i quali rimangono a casa dei genitori oltre i 30 anni, età media di matrimonio nella nostra popolazione (viene preso in considerazione il matrimonio in quanto nel nostro Paese spesso simboleggia l’effettiva uscita da casa). Questa situazione, ovviamente, ha delle implicazioni sia per l’individuo che per la famiglia. Le motivazioni che portano a questa condizione sono varie, se da una parte vi è una considerevole fetta di popolazione che la sceglie, dall’altra bisogna considerare tutti quegli individui costretti a subirla.
La conti10330243_10204488374797866_3411922392096180556_nnua richiesta di persone sempre più specializzate, infatti, induce gli individui ad intraprendere iter formativi sempre più lunghi senza alcuna certezza di possibilità lavorative concrete. Inoltre, gli sforzi fatti portano le persone a ricercare posizioni idonee al loro profilo e, volendo soddisfare le proprie aspettative evitano, solitamente, di accettare il primo lavoro che capita preferendo, piuttosto, rimanere a casa. In questo, altrettanto spesso, vengono sostenuti dalla famiglia d’origine che vuole tutelare e proteggere il figlio. Il ruolo della famiglia ai giorni nostri è quindi basilare, e lo è anche in tutte quelle situazioni in cui la persona esce effettivamente di casa, inizia a costruirsi il proprio futuro, ma si ritrova a non essere, a livello economico, completamente indipendente.
Ad oggi il tasso di disoccupazione è molto alto e le possibilità lavorative, oltre che rare, spesso sono fatiscenti, totalmente incapaci di permettere alla persona di fare progetti a lungo termine e questo ha risvolti significativi su vari fronti tra cui, ovviamente, quello psicologico. Studi longitudinali dimostrano che la disoccupazione forzata è correlata ad un deterioramento della salute mentale dell’individuo. Spesso implica una perdita di autostima, rende più vulnerabili nei confronti degli eventi stressanti e aumenta il rischio di depressione. Ovviamente ogni individuo è unico, quindi le differenze individuali influenzano il modo in cui vengono affrontate le esperienze, non fanno eccezione quelle negative come la disoccupazione. Per questo specifico caso una ricerca di Banks e Ullah (1988) ha dimostrato che ha un ruolo significativo il modo in cui la persona usa il suo tempo libero e che il disturbo emotivo si inasprisce nel caso in cui la disoccupazione porta a problemi economici significativi. Inoltre, se la condizione di disoccupato dura per lungo tempo, sembra che la depressione si presenti maggiormente in quegli individui che ricercano in maniera più insistente, ma invano, un’occupazione. Questo implica che ridurre i tentativi riduce la possibilità di depressione, ma non diminuisce l’ansia. Infine la possibilità di poter ricevere sostegno emotivo ed economico diminuisce il rischio dell’emergere di problemi emotivi.
Quindi possiamo affermare che svolgere un impiego soddisfacente e retribuito è un fattore di salute mentale. Pertanto sarebbe importante che ci fosse un maggior investimento sui giovani, che alimentasse, invece di distruggere, l’euforia dell’individuo che si affaccia al modo del lavoro, “fresco” di studio e pieno di voglia di fare esperienza. È necessario tenere in considerazione lo sforzo fatto per formarsi, perché il riconoscimento e la valorizzazione aumentano la prestazione, mentre la sensazione di non essere mai abbastanza, associata al dubbio del riuscire, prima o poi, a diventare veramente ciò che si vorrebbe, unito a ciò di cui c’è bisogno, influenza l’emergere di emozioni negative nell’individuo e va a minare la sua autostima e il suo senso di autoefficacia, cioè la sensazione di potercela fare di fronte alle avversità. È importante anche che il giovane, dal canto suo, si metta in gioco, non si faccia travolgere dalla frenesia del mondo moderno, nè abbattere di fronte alle difficoltà che inevitabilmente incontrerà nel suo cammino. Ogni persona deve imparare a darsi il permesso di fermarsi ad ascoltare se stesso, il proprio corpo e il proprio mondo interiore; capire quali sono gli obiettivi della sua vita e cercare di raggiungerli, rimanendo disponibile a fare dei compromessi. Seguire la propria strada ed, eventualmente, avere il coraggio di tornare indietro per poi ripartire.

Le parole che ho detto: determinazione, incertezza, impegno

Il saggio dice:

“La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia” (Mahatma Gandhi)

Francesca Paoletti

 

Diverso… da chi?

Quello della diversità è un tema di cui spesso si parla, nelle sue molteplici combinazioni e sfaccettature: diverso è lo straniero, il matto, l’omosessuale, e così via fino ad arrivare alle più disparate categorie individuabili nella società e nella vita di tutti i giorni. La domanda centrale da cui vorrei partire e alla quale vorrei provare a rispondere alla fine di questo articolo – che non ha la pretesa di esaurire questo argomento davvero vasto e complesso – è: diverso da chi? In altre parole, chi stabilisce che una persona è diversa? E anche, da quale angolatura bisogna guardarla per decretare la sua diversità?

Parlare dell’Altro, il diverso, significa inevitabilmente fare i conti con la nostra identità: dice Piero Amerio, «io sono io perché non sono un altro, perché sono “diverso” da lui, e lui è diverso da me». L’Altro quindi è sempre legato al Me, ma anche al Noi: delineare i confini del “Noi” ci consente di definire l’Altro con le sue caratteristiche, che determinano la sua inclusione o esclusione dal nostro universo. Per essere inclusi a pieno titolo nel proprio gruppo di appartenenza, bisogna possedere delle caratteristiche salienti che determinano appunto se la persona appartiene oppure no a quel gruppo: credere nei valori di un partito politico, avere una particolare fede religiosa, provenire da una specifica regione del mondo, sono tutti esempi di caratteristiche che accomunano gli individui facenti parte di un gruppo. Tuttavia, è importante avere chiaro che i criteri con cui si stabilisce l’appartenenza o meno ad un gruppo possono essere variabili perché influenzati dal periodo e dall’epoca storica in cui si vive.

Ma allora esistono dei meccanismi alla base di questi processi? La risposta è sì. Nell’approcciarsi al mondo che ci circonda, infatti, ciascuno di noi compie, inconsapevolmente, un’operazione di classificazione: per prima cosa vengono individuate somiglianze e differenze tra gli elementi (persone o cose) presi in considerazione; sulla base delle somiglianze, questi elementi vengono organizzati in categorie. Questa operazione consente all’uomo di sistematizzare e semplificare l’ambiente in cui vive e viene definita “categorizzazione sociale”. Ma le cose si complicano perché questa tendenza alla semplificazione comporta un processo di esagerazione delle differenze tra chi rientra in categorie diverse dalla propria, e di minimizzazione delle stesse all’interno della medesima categoria. Banalmente, io percepisco come molto simile a me chi appartiene al mio gruppo e come molto diverso chi non vi appartiene.

È chiaro a questo punto che la categorizzazione sociale è un processo “normale”, cioè che accomunDSCF4138a tutti, e molto utile perché serve a semplificare la realtà. Ma la tale processo serve anche ad acquisire informazioni su qualcuno a partire proprio dalle caratteristiche salienti della sua categoria di appartenenza. Ciò significa che, quando di una persona sappiamo poco, tendiamo a farci un’idea di lei utilizzando le informazioni che abbiamo sulle categorie a cui appartiene, senza dover cercare o chiedere altro; il rischio è quello di non vedere le altre caratteristiche personali altrettanto importanti di quella persona e di considerare ogni suo comportamento come frutto delle caratteristiche comuni al suo gruppo. Il passo successivo è molto semplice: per capire e conoscere quella persona utilizzerò degli stereotipi, cioè delle immagini mentali “preconfezionate” che semplificano in modo grossolano e rigido la realtà e portano ad interpretare gli altri in modo errato, spesso senza che vi sia un contatto diretto con loro. Anche gli stereotipi sono frutto di un processo “normale”, cioè che accomuna tutti, ma rischiano di fare da supporto ai pregiudizi e alla discriminazione, che comportano un giudizio negativo dell’altro e talvolta un attacco ostile e violento verso quest’ultimo.

Ora che ho chiarito quali meccanismi stanno alla base della percezione e valutazione della diversità, mi preme sottolineare alcuni punti.

Innanzitutto, la diversità è un’eredità della nostra natura umana: non possiamo scegliere se essere diversi né chi è diverso, poiché tutti lo siamo gli uni dagli altri e questo ci rende unici. Il suddividerci in categorie è uno stratagemma molto utile e inconsapevole che ci consente di vivere al meglio nella società: dobbiamo però ricordarci che qualsiasi categorizzazione operiamo è sempre una costruzione di convenienza, ma non appartiene alla natura e quindi è opinabile. Per questa ragione nessuno può stabilire che una categoria sia meglio di un’altra, l’unico discorso che si può fare sui gruppi sociali è di tipo statistico e numerico, cioè possiamo dire solo che vi sono più persone che appartengono ad una categoria piuttosto che a un’altra, ma non possiamo attribuirgli alcuna superiorità o inferiorità. Infine, cosa più importante, dobbiamo sempre ricordare che, proprio in quanto frutto di meccanismi “normali” e inconsapevoli, le categorie sociali, gli stereotipi e i pregiudizi accomunano tutti noi. Ciò su cui possiamo lavorare non è fingere di non essere coinvolti in tali processi, ma accettarli e cercare di contrastarli laddove danneggino gli altri.

Siamo tutti diversi, dobbiamo solo cecare di imparare dalla specifica diversità delle persone con cui entriamo in contatto, poiché solo in questo modo possiamo crescere e divenire persone e cittadini migliori.

Le parole che ho detto: semplificare, reciprocità, crescere.

Il saggio dice:

[…] Spiegatemi voi dunque,

in prosa od in versetti,

perché il cielo è uno solo

e la terra è tutta a pezzetti.

Gianni Rodari

Lorenza Di Gaetano

Quando la Coppia Scoppia…

Una persona ci ha chiesto: “Sono stato lasciata/o e ci sto male, a volte vorrei il suo bene, altre vorrei che stesse male, altre vorrei che tornasse con me. Cosa succede quando ci si lascia, come posso superarlo?” e allora provo a risponderle così, sperando che questa riflessione possa essere sufficientemente breve e chiara.

All’interno delle coppie di fidanzati o coniugi solitamente si viene a creare un forte legame psicologico che può essere definito come “legame d’attaccamento” ossia un particolare tipo di legame che Bowlby e i suoi collaboratori avevano individuato nelle coppie genitore-bambino (solitamente madre-figlio). Questa forma di vincolo ha una serie di caratteristiche che, in condizioni ottimali, rende sereno e sicuro lo sviluppo del bambino che avrà piena fiducia in se stesso, nelle proprie capacità e nelle proprie figure d’attaccamento (tendenzialmente i genitori).

Abbiamo però detto che lo stesso legame si viene a formare nelle coppie; ciò, in linea di massima, avviene in quelle che durano per un periodo sufficientemente lungo. Infatti i primi 6 mesi circa costituiscono il periodo dell’innamoramento, in cui l’altro è idealizzato e visto solo nei suoi aspetti positivi; ci si sente completati da esso e si desidera stargli vicino quanto più tempo possibile provando sensazioni negative al distacco. Nell’arco dei primi due anni di vita della coppia, però, questa euforia tende a diminuire progressivamente, l’altro viene visto per ciò che è e apprezzato in quanto tale, divenendo così un punto saldo a cui far riferimento nella propria vita.

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Tuttavia i legami di coppia possono rompersi e questo è generalmente molto doloroso per entrambe le parti soprattutto quando la relazione ha avuto una certa durata quantificabile approssimativamente tra almeno i 18 e i 24 mesi. Infatti è questo il tempo necessario perché si raggiunga la fase della “base sicura”, ossia la fase in cui il partner è divenuto un punto di riferimento inamovibile e pertanto ritenuto come una persona che a prescindere dagli eventi sarà sempre presente e accorrerà in soccorso nei momenti di difficoltà. Tali processi sono reciproci all’interno della coppia adulta; l’uno è una figura d’attaccamento, e pertanto una “base sicura”, per l’altro e viceversa. Ciascun partner nell’arco del tempo manifesta nei confronti dell’altro sia bisogni di cura che una propensione ad “accudirlo” all’interno di un rapporto di reciproca fiducia.

Qualora il rapporto dovesse terminare la persona che ha subìto la scelta si potrebbe sentire estremamente sola, in qualche maniera tradita e contemporaneamente colpevole dell’accaduto a prescindere dall’andamento degli eventi. Chi viene lasciato potrebbe andare incontro ad un qualcosa di molto simile al lutto e quindi vivere profondi sentimenti di tristezza e un ritiro sociale; avere ritmi sonno-veglia alterati, variazioni dell’appetito e dei normali ritmi quotidiani; provare forti sentimenti di rabbia e gelosia nonché un irrefrenabile desiderio che l’ormai ex partner ritorni sui suoi passi. A questo potrebbe seguire, o talvolta addirittura esserne contemporaneo, un periodo di esuberanza caratterizzata dalla sensazione di avere energie infinite e dalla convinzione che da quel momento si ha la propria vita in mano. Altre forme di reazioni possono dipendere dallo stato psicofisico antecedente la rottura; ad esempio una persona che presenta già una sintomatologia, può andare incontro ad un suo inasprimento, sia questa fisica o psichica. Nulla di tutto questo è sbagliato, pericoloso o bisognoso di particolari attenzioni cliniche a priori; il fatto che sia necessaria un’attenzione di tipo clinico può dipendere dall’intensità dei sentimenti negativi/euforici e dalla tipologia di comportamenti che ne derivano, nonché dal disagio che ciò può provocare. Inoltre, un altro fattore importante per valutare se sia o meno il caso di rivolgersi ad uno specialista è la durata, ossia per quanto tempo i sentimenti negativi/euforici, le condotte di isolamento o pericolose, il desiderio che tutto ritorni “come prima”, si manifestano. Quanto più è lungo il periodo durante il quale tutto ciò avviene e/o quanto più sono intense le reazioni, tanto più è probabile che un aiuto specialistico possa essere necessario per superare un periodo così critico. Ovviamente con ciò non voglio affermare che a seguito della rottura di una relazione di coppia l’intervento di uno specialista nel campo psicologico sia indispensabile, anzi, voglio dire che reazioni di tristezza, ansia, desiderio di isolarsi o di ritornare alla “vecchia” situazione sono assolutamente comuni finché sono limitate nel tempo e non raggiungono un’intensità tale da provocare disagi notevoli a se stessi e alle persone circostanti. Dopo tutto, se la relazione ha avuto una durata sufficiente, si è perso un punto di riferimento fondamentale nella propria vita e una simile perdita necessariamente causerà un forte disorientamento.

Alcuni studiosi nord-americani che hanno tentato di stilare delle graduatorie delle relazioni di attaccamento hanno dimostrato che quella con il partner in età adulta è tendenzialmente tra il primo e il secondo posto.

La relazione di coppia però vede due protagonisti e ciò avviene anche al momento della rottura, che sia una decisione condivisa o unilaterale. Per ora abbiamo parlato di chi sente di aver subito una scelta, ma è il caso di focalizzarci anche su chi se ne fa autore. Chi “lascia”, in seguito ad una relazione sufficientemente duratura, tendenzialmente, in condizioni “normali”, si trova già in una fase di distacco emotivo dal partner e dalla relazione. In questa condizione l’individuo non vede più il partner come principale punto di riferimento ma, ciononostante, può comunque andare incontro ad una profonda sensazione di dolore. Dopo tutto può risultare difficile sostenere la visione o il pensiero di una persona a cui si è stati profondamente legati così sofferente. Infatti viene attivato quello che gli specialisti hanno definito “sistema dell’accudimento” ossia un sistema mentale innato e funzionale all’evoluzione che spinge gli individui a prendersi cura di coloro a cui sono legati affettivamente e biologicamente. L’attivazione di questo sistema mentale può portare il partner che ha deciso di rompere la relazione ad assumere il ruolo di consolatore, ossia di colui che esorta l’altro a prendere atto della perdita come evento ineluttabile. A tal proposito mi vengono in mente le parole di una canzone dei Guns’n Roses, Don’t Cry:

“Don’t you take it so hard now                                     “Non farla così difficile adesso
And please don’t take it so bad                                      E per favore non prenderla così male
I’ll still be thinkin’ of you                                                    Penserò ancora a te
And the times we had… baby                                        E a ciò che abbiamo condiviso…baby

[…]                                                                                                   […]

And please remember that I never lied                    E per favore ricorda che non ho mai mentito
And please remember                                                        E per favore ricorda
How I felt inside now honey                                         Come mi sono sentito, ora tesoro
You gotta make it your own way                              Devi farlo a modo tuo
But you’ll be alright now sugar                                   Ma ora starai bene dolcezza
You’ll feel better tomorrow                                          Ti sentirai meglio domani”
[…]                                                                                                  […]

Tale atteggiamento da una parte può alimentare il desiderio di chi ha subìto la decisione di mantenere la vicinanza con il partner e di conseguenza la relazione con esso; dall’altra può alimentare anche il risentimento nel momento in cui questo si rende conto che il suo desiderio rimane e rimarrà frustrato.

Inoltre la parte attiva nel processo di separazione, di fronte a momenti di smarrimento, può provare gli stessi desideri di ritornare alla “vecchia situazione”, quindi ritornare in quella relazione che per un certo periodo è stato un punto di riferimento inamovibile, ma il distacco emotivo in cui si trova consente di guardare a questo desiderio come ad una sorta di reminiscenza del passato che si presenta solo nei momenti di crisi in un periodo in cui un nuovo punto di riferimento altrettanto saldo non si è ancora formato. Infatti, nel momento in cui si perde una figura d’attaccamento, anche se ciò avviene in maniera progressiva, si va incontro ad un periodo di disorientamento in cui l’individuo tende ad investire maggiormente su se stesso prima di poter individuare una nuova figura d’attaccamento che possa fungere da “base sicura”.

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In definitiva, per entrambe le parti coinvolte può essere del tutto “normale” andare incontro a periodi di disorientamento in cui si può volere una cosa e il suo contrario, oppure si può non sapere cosa si vuole o chi si è; la situazione può richiedere maggiore attenzione quando la durata di questa condizione è molto ampia. Una via d’uscita può essere quella di mantenere una certa dose di apertura al mondo circostante perché le relazioni in cui siamo inseriti possono aiutarci a trovare nuovi punti di riferimento rispetto al mondo e a noi stessi.

Le parole che ho detto: sofferenza, reciprocità, crisi

Il saggio dice:

 “La morte di un amore è come la morte d’una persona amata. Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto. Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva ti senti invalido. Mutilato.”
Oriana Fallaci

 

Claudio Falciano

Un sano conflitto. Essere genitori di un figlio adolescente

Essere genitori non è mai semplice, alcuni sostengono che sia il lavoro più difficile del mondo e in parte è vero.
Ogni genitore si affaccia a questo ruolo con il suo bagaglio di esperienze di persona, di figlio, di partner, di fratello o sorella, di amico e con tutta una serie di ideali che vuole tramandare; dall’altra parte c’è il figlio reale, che è una persona a sé, che ha un’enorme necessità di essere guidato, coccolato e consigliato dai propri genitori, ma che, inevitabilmente, al tempo stesso ha i suoi gusti, le sue idee, le sue esperienze. Questo porta, durante tutto il percorso di vita, a quelli che mi sento di definire dei “sani conflitti” tra genitori e figli, attraverso i quali, ben ancorati da entrambe le parti grazie al bene profondo reciproco, si cerca di definire i propri confini.
Nell’adolescenza, solitamente, si ha il culmine di questi conflitti. Chi ha a che fare con gli adolescenti – o anche semplicemente tutti noi, se proviamo a chiudere gli occhi e a ripensare a quando lo siamo stati a nostra volta – avrà ben in mente le grandi sbattute di porta, le lacrime infinite, gli amori tanto profondi quanto brevi, la musica ad un volume altissimo, i “ti odio” e i “ti amo” detti con tanta semplicità; la sensazione di poter far tutto “tanto non ci può succedere nulla”, che spesso si scontra con la paura di non essere mai abbastanza.

MA PERCHE’ TUTTO QUESTO?
L’adolescenza è uno dei periodi della vita in cui vi sono maggiori trasformazioni, in quanto vi è il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Il ragazzo si trova ad affrontare tutta una serie di cambiamenti: modificazioni fisiche, che riguardano il corpo e la sessualità, e modificazioni psicologiche. Un altro cambiamento importante riguarda l’aspetto relazionale. Gfoto x un sano conflittoli amici, il gruppo dei pari, in questo periodo rivestono un ruolo fondamentale, ben diverso da quello che avevano negli anni precedenti e che avranno nel futuro. Attraverso il gruppo si sperimentano le emozioni legate alla sessualità, alla cooperazione e alla competizione; i coetanei permettono il confronto e/o l’identificazione. Un altro evento significativo può essere la nascita di un legame affettivo che implica sia la ridefinizione del proprio essere nel gruppo di amici, sia un modo per mettere alla prova la propria amabilità personale, che può essere confermata o ridefinita. Anche il ruolo della famiglia cambia. Se nell’infanzia ai genitori venivano richiesti vicinanza e accudimento, nell’adolescenza si ricercano l’allontanamento, l’autonomia e l’indipendenza. I cambiamenti di ruolo non sono mai semplici in quanto ognuno deve rivedere la propria posizione.
Mi viene in mente la frase di un libro:
“L’adolescente vuole divenire sempre più autonomo, ma allo stesso tempo sente il bisogno di essere protetto: pretende i privilegi dell’età adulta, ma ne rifugge le responsabilità. Parallelamente i genitori sono disposti a considerare il figlio adolescente al pari di un adulto quando si tratta di ricordargli le sue responsabilità, ma continuano a vederlo come un bambino quando invece si tratta di riconoscere i suoi nuovi diritti” (P. Gambini, Psicologia della Famiglia, Milano 2007).
E’ proprio per questo che, solitamente, insorgono i “sani conflitti”.

ALLORA COSA FARE?

Nella famiglia è importante fare “gioco di squadra”, sapersi ascoltare, rispettare gli spazi e i ruoli di ognuno, darsi una mano. Non considerarsi detentori di verità: ognuno di noi ha fatto il suo percorso di vita, le sue scelte, i suoi errori e anche quest’ultimi ci sono serviti per diventare gli adulti di oggi.
È, quindi, importante avere fiducia nei propri figli e sulla base di questa permettergli di fare le loro esperienze; sempre, però, cercando di monitorare, in modo non invadente, ciò che succede perché purtroppo, è vero, a volte gli errori possono diventare disastri.

Le parole che ho detto: Dialogo, Cambiamento, Fiducia

Il saggio dice:

“Un genitore saggio lascia che i figli commettano errori. E’ bene che una volta ogni tanto si brucino le dita”  (Mahatma Gandhi)

Francesca Paoletti

Tutto ebbe inizio una sera di primavera…

Quando abbiamo cominciato a pensare a questo blog era una sera di primavera e stavamo bevendo un bicchiere di vino rosso. Ad un certo punto è arrivata l’ “illuminazione”.
– E se creassimo un luoLogogo virtuale in cui condividere pensieri e riflessioni su alcune tematiche di psicologia e attualità?
– E se dalle nostre riflessioni ne partissero delle altre e si innescasse un dibattito?
Questa è, nella sua estrema semplicità, la breve storia di questo spazio e la reale motivazione che ci ha spinti a imbarcarci in questa nuova avventura. Condividere, incuriosire, proporre riflessioni e magari rispondere e venire incontro a dei dubbi: il tutto mediato dallo schermo di un pc, in modo da incoraggiare anche i più timidi.
Le tematiche saranno varie e saremo lieti di accogliere eventuali proposte da parte dei nostri lettori. Il nostro augurio è che gli stimoli da noi presentati divengano il trampolino per far “accendere” altri stimoli, in un circolo di idee senza soluzione di continuità.
Non ci resta che darvi il nostro Benvenuto!